Le sue poesie furono pubblicate tra il 1930
e 1931 in due volumetti intitolati: "Gli Ultimi Canti di Albino
Defilippi, ossia un Buon Pasto di Buona Minestra e Buone Pietanze"
(Casale Monf., Tipografia Pezzana e Musso succ. Pane, 1930) ed "I miei
ultimi canti", (Casale Monf., Unione Tipografica Popolare, di Botto,
Alessio & C., 1931).
Albino sposò Vincenza Ghione ed ebbe
un solo figlio, Teofilo, nato nel 1885.
Teofilo avrebbe dovuto realizzare il sogno
artistico accarezzato dal padre e divenire pittore (frequentò a Torino la
Regia Accademia Albertina di Belle Arti), ma nel maggio del 1905 il suo
cadavere fu ritrovato alla confluenza tra il Po e la Dora. Non fu mai
appurata la causa di questa morte misteriosa.
La biografia di Teofilo è contenuta alla
fine de "I miei ultimi canti", mentre una sua poesia dedicata al
padre Albino apre "Gli Ultimi Canti di Albino Defilippi".
Tornato a Treville, dopo la morte del
figlio, Albino vi morì nel 1939.
Uomo schivo, introverso e
di poche parole, Albino frequentò assiduamente la chiesa e fu terziario
francescano. Non si recava all'osteria (ma il vino doveva piacergli, a
giudicare da parecchi suoi inequivocabili versi), era sempre gentile e
benevolo. La sua scarsa cultura di base non gli permise però di ottenere
risultati apprezzabili nelle poesie in lingua italiana.
Evidentemente
autobiografica è la divertente poesia pubblicata su "I miei ultimi
canti" ed intitolata "La Vecchiaia".
Ecco qualche verso: «I brass vennu che fan muietta,
/ E le gambe fan gambaretta / E bsogna puntà 'l bastôn / Per nen ciapà dij
trabuccôn / ... I casca tcò i dent d'am bucca / Che a mangià s'fa vitta
lucca / ...l'è anca semp la stizza 'l nas / Che l'è brutt veddi e 'l
dispiass...».
Il Paradiso era
l'assillante pensiero del contadino-poeta, tanto è vero che sulla sua
lapide, situata nella cappella del cimitero trevillese riservata ai membri
delle Confraternite (i "Batu'"), volle il seguente epitaffio:
"Oro e argento non vi chiamo / fiori e lacrime non bramo, / cerco neppure
lodi ed onore / perché per me non hanno valore. / Solo aspetto mane e sera
/ dai pietosi una preghiera. /... Se recate a me conforto: anche voi
guidate a porto, / Pregate per mia meta / pregate per me basso poeta".
Nella memoria dei
trevillesi permane il ricordo della composizione intitolata "La canzone
di Treville" (Strapaesana) e soprattutto del suo onomatopeico
ritornello, che ricorda lo scalpiccio dei viandanti: «Evviva
Tarvilla tich tich e tich toch / L'è 'l pais d'jarticioch». I
versi, stampati in un foglio volante, erano cantati dai trevillesi in
occasione del Pellegrinaggio annuale (a piedi) al Santuario Crea, oppure
alla Fonte Solforosa, in uno di quei rarissimi giorni di riposo che
interrompevano una vita di lavoro pesante e sempre incalzante. |